La storia silenziosa e
a tratti indecifrabile di un campione che avrebbe potuto essere invincibile.
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La storia silenziosa e
a tratti indecifrabile di un campione che avrebbe potuto essere invincibile.
Herman Van Springel,
come tanti, si trovò a correre nell'era di Eddy Merckx. Come tanti, si era
accorto che quegli anni sarebbero stati inevitabilmente segnati dal suo
predominio, dalla sua inarrestabile voracità. Ma lui, Herman, non era come gli
altri. Lui, nato in Belgio, nella provincia di Anversa, non era certo stato
quello che si dice un predestinato.
Così umili le sue origini e così gentili i suoi modi, così nobili le sue mani,
tanto da lasciare la scuola a quattordici anni per imparare un mestiere insolito
ed affascinante: l'intagliatore di
diamanti. Si stupirono tutti quando decise di fare il ciclista.
Perché?
Di sicuro Herman era un cavallo di razza pura, lo stile classico dei belgi, un talento cristallino come i diamanti
che aveva avuto per le mani, anche se per tutta la vita gli verrà rimproverato
di non avere avuto la cattiveria giusta per l'agonismo spietato della strada, quella
che serve per fare il possibile, per vincere l'impossibile.
Non era come gli altri, lui. Quieto, poco avvezzo alla popolarità, umile ma di
un'umiltà così profonda da essere troppa, da sminuirsi come i campioni non
dovrebbero fare. Troppe occasioni perse oppure una precisa tattica? Una sorta
di piano A mascherato da B?
Se si dovesse scrivere un romanzo, sarebbe lecito dire che Van Springel si
innamorò perdutamente di una e una sola corsa nella sua vita: la più bastarda
in assoluto, la più dura, forse anche la più odiata. La Bordeaux- Parigi che riuscì a far sua addirittura sette volte. A Merckx non piaceva e
infatti non la vinse mai. La odiava perché erano quattrocento chilometri in
aperta campagna, con il fango e le erbacce e poi cento chilometri dietro un
derny puzzolente e rumoroso. Un
autentico supplizio. Herman forse la amava proprio per questo. O forse gli
piaceva perché era l'unica competizione dove sapeva che il dominio sarebbe
stato imparziale, che non avrebbe subito i condizionamenti dell'ombra che il
cannibale gettava oramai su tutto. Una sfida sua, neanche per la gloria forse,
solo per la passione: due cose profondamente diverse.

Durante la sua carriera, dal 1965 al 1981, vinse quattro tappe del Tour de France, una Gand-Wevelgem, un'Omloop-Het Volk, una Parigi
Tour e persino un Giro di Lombardia,
senza contare che salì sui podi più prestigiosi d'Europa come quello della Parigi-Roubaix, della Liegi e della Milano-Sanremo. Avrebbe potuto vincere tutto. Almeno, questo è
quello che dice il suo palmares ma di Herman Van Springel si sa così poco, il
suo carattere schivo forse non ha permesso che scrivessero di lui come di altri
e questo avvolge la sua carriera in un alone quasi ambiguo, specialmente ripensando
a quando rinunciò al suo ruolo di capitano nella Mann-Grunding per andare alla Molteni,
a fare il gregario del Cannibale.
Qualcuno dice che Herman non fosse abbastanza convinto di sé stesso, che quel
suo fare da gatto silenzioso fosse solo una lotta contro il non sentirsi abbastanza, per altri era
semplicemente furbo quanto basta per cavalcare un'epoca non semplice, dove
c'era praticamente un solo dio.
Nessuno può saperlo, forse nemmeno lui che adesso si può ancora incontrare in
bici, un paio di volte la settimana, per le strade fiamminghe intorno a Duffel e ancora spera di poter
ringraziare un giorno quel tifoso che gli offrì lo champagne ghiacciato sul Galibier, nel 1969. Era un fiammingo, lui
lo sa. Solo un fiammingo poteva sapere che l'alcol non avrebbe fermato le sue
gambe. Solo un fiammingo poteva chiamarlo così.
Herman! Herman!
Signorino ribelle che intagliava le corse come faceva con i diamanti. In fondo,
da grezze a cristalli è un attimo, basta avere le mani giuste. E le gambe, e il
cuore.