Bellissimo, elegante in bici e principe del fair-play: Hugo
Koblet è stato l'arcangelo del ciclismo....

Bellissimo, elegante in bici e principe del fair-play: Hugo
Koblet è stato l'arcangelo del ciclismo. La storia di un talento folgorante e
improvviso, ancora avvolto da mille misteri.
Di Hugo Koblet c'è
una foto iconica che lo rappresenta più di tutte. La più famosa, forse la più
bella. Quando si dice che uno scatto può disegnare una indole in un solo
istante. Lui che si pettina i capelli dopo la tappa del Tour de France 1951 da Brive ad Agen dove andò in fuga per sbaglio '“
così disse lui '“ e arrivò con quasi tre minuti di vantaggio sugli uomini di
classifica. Quel giorno Koblet divenne il primo
svizzero ad assicurarsi la corsa francese. E da quel giorno cominciarono a
chiamarlo 'Le Pedaleur du Charme'
prima di accorgersi che la sua storia sarebbe assomigliata sempre di più a
quella di una stella di Hollywood come James
Dean. Bello e a tratti ombroso, generoso contro un'esistenza di mistero senza
tirare i freni sulla linea bianca.
Hugo Koblet non aveva discendenze principesche, anzi. Nacque
in un quartiere popolare di Zurigo, i suoi genitori gestivano una piccola
panetteria e lui '“ un ragazzino - li aiutava nelle consegne, in bicicletta
ovviamente. Cominciò a correre e uscì dall'anonimato nel 1947 vincendo il Giro di Svizzera lasciando dietro di sé
Coppi e Bartali, non due qualunque
insomma. Fece tutto in pochissimo tempo, il ragazzo di Zurigo, come se sapesse
di avere poco tempo per lasciare un
segno che fosse indelebile. Una volta lo disse a quelli che gli
rimproveravano di scialacquare i soldi in continuazione: 'Io ne approfitto perché so che non avrò una vecchiaia, non ci arriverò'
I ciclisti sono troppo abituati ad ascoltarsi in profondità, in ogni piccolo
angolo buio, per poter lasciar perdere i presentimenti.
Hugo Koblet vinse poi un Giro d'Italia
'“ primo straniero ad indossare la maglia rosa '“ e poi persino il Tour, in
quella giornata epocale che segnò la sua carriera per sempre. Folgorante,
appunto, tutto insieme. Prima la figura incantata di un principe dall'animo
gentile che volava sui pedali e poi un uomo sul precipizio senza sapere come
salvarsi. In mezzo un viaggio in Messico dal quale tornò con una malattia
invisibile, la testa a posto e il cuore pure ma il resto spento, come se fosse diventato
l'ombra di sé stesso. Il 1952 fu l'anno nero dopo quello d'oro.
I continui problemi respiratori, i globuli rossi mancanti, il dolore alle reni
minarono tutto senza chiare spiegazioni fino all'ultima bastonata sul Trafoi, quando Fausto Coppi vinse
rompendo un patto che avevano fatto il giorno prima. E anche se il ciclismo è
sempre stato uno sport che ti fa crescere a suon di fregature, è pur vero che la
slealtà è un'autentica spina nel fianco nella vita dei leali.

Koblet aveva trent'anni quando lasciò il ciclismo. Gli proposero di andare in
Venezuela come testimonial AGIP e poi tornò a Zurigo dopo due anni per gestire
la stazione di benzina del velodromo di Oerlikon. Accettò di fare il
commentatore ma era timido, introverso. Non era il suo ruolo, non lo era mai
forse. Doveva fare il ciclista e non il collezionista di rimpianti.
Una sera, non lontano da Esslingen, un contadino vide un'Alfa Romeo bianca schiantarsi contro un albero. Al volante c'era
Hugo Koblet. Che tra l'altro lui neanche l'amava la velocità, era uno
orgoglioso di possedere cose belle, gli piacevano le macchine costose ma andava
veloce solo in bicicletta, coi motori neanche a sognarselo. Eppure lo schianto
fu violento, sulla strada nessun segno di frenata, nessun guasto alla vettura.
Niente.
Aveva trentanove anni Hugo Koblet e nessuno sa dire cosa successe quella sera o
quale limbo stesse attraversando. Se ne andò per sempre portandosi via l'ultimo
dei suoi misteri, d'improvviso come era arrivato. Per caso o forse no. Di lui
resta quella foto iconica che forse è anche il ritratto di un'epoca, lui che
pensa a mettersi a posto i capelli, dopo
la fuga più bella di tutta la sua vita.
Quello sì, era la sola cosa che aveva conservato. Il pettine nero, riposto
chissà dove, sopravvissuto all'uragano.